Il co-branding non passa mai di moda

23 Giugno 2022 Sottosopra Comunicazione

Il co-branding non passa mai di moda

Il principio alla base del co-branding è lo stesso che recitava un giovane Accorsi nell’epica campagna Motta del 1995: two is megli che one.

Il co-branding è una partnership strategica tra due aziende: una collaborazione che inizia in fase di sviluppo prodotto e si estende fino alla commercializzazione. I prodotti co-branded sono ormai ovunque: dal nostro armadio (H&M e i designer di alta moda, per citarne una) fino all’alimentari di quartiere (pensiamo alle uova di Pasqua griffate). Questo perché è una strategia vecchia ma efficace, che se sviluppata bene può essere applicabile sia alle grandi imprese che alle PMI.

Il co-branding è una strategia utile alle aziende che cercano di ampliare la propria base di clienti, il fatturato, la propria quota di mercato, la fedeltà dei clienti, rafforzare l’immagine del marchio, il valore percepito e risparmiare sui costi adv.

In una partnership di questo tipo, le aziende uniscono risorse, creatività e base clienti per creare un prodotto ex-novo. Condividere lo sforzo di creazione e di lancio permette ai brand di ridurre i rischi individuali e, se le cose vanno come previsto, di ottenere visibilità nel bacino clienti dell’altro brand. Si tratta del cosiddetto effetto alone: una situazione win-win.

Per avere successo, la collaborazione deve però partorire un prodotto originale, in edizione limitata e che offra valore aggiunto ai clienti di entrambi i brand. Non solo, i due marchi devono anche avere una cultura, valori e target simili. Come vedremo più avanti, una partnership con un’azienda controversa può risultare molto pericolosa.

Perché un co-branding fatto bene è efficace?

L’intero è molto più che la somma delle sue singole parti. Se la base clienti conosce entrambi i brand, l’annuncio della collaborazione creerà immediatamente hype nella forma di conversazioni tra addetti ai lavori, interazioni social e conseguentemente brand awareness, acquisizione di nuovi clienti e fidelizzazione di quelli già affezionati.

Il co-branding può essere efficace anche per modificare il posizionamento di un marchio. È quello che succede quando i marchi d’alta moda collaborano con brand di streetwear, activewear e fast fashion. Le maison svecchiano la propria immagine, diventando accessibili ad un target più ampio, mentre i brand più sportivi o low cost acquistano un’aura di esclusività.

Ma le partnership più curiose e sfidanti sono forse quelle che uniscono brand che operano in settori diversi, pur condividendo una base valoriale. Vediamo alcuni esempi.

C’era una volta il co-branding

Il co-branding non è certo una novità, neanche sul mercato italiano. Alcuni esempi vecchi di una ventina d’anni potrebbero essere la partnership tra McDonald’s e Smarties, con la creazione del dolcissimo McFlurry, che ha aperto la strada a collaborazioni con M&M’s, KitKat e Snickers. Oppure la collaborazione incrociata tra food & beverage e moda con le iconiche bottiglie in vetro di Coca Cola che dal 2003 sono state firmate da stilisti del calibro di Fiorucci, Missoni, Fendi, Versace fino alle ultime collezioni 2013-2015 con Marc Jacobs, Moschino e Trussardi. 

Negli anni, anche acqua S.Pellegrino ha fatto firmare le sue bottiglie da case di moda dai valori affini, creando a partire dal 2010 delle edizioni limitate con etichette Bulgari e Missoni. Nello stesso periodo la maison del cioccolato di lusso Venchi ha realizzato una linea di cioccolatini chic in partnership con Armani. Mentre qualche anno dopo Magnum e Dolce e Gabbana, rispettivamente i cugini appariscenti della famiglia dei gelati e dell’alta moda crearono un dessert in edizione limitata per festeggiare i 25 anni di Magnum.

Co-branding 2.0

In anni più recenti, ha fatto molto discutere la collaborazione tra Evian e Chiara Ferragni. Ogni anno, l’acqua più chic di Francia lancia un’edizione limitata delle sue iconiche bottigliette firmata da un designer di moda. L’edizione 2018 in collaborazione con Chiara Ferragni fece però molto discutere (in Italia) a causa del prezzo, fissato a 8 euro. Un prezzo standard per le collaborazioni di Evian, un brand di fascia premium, ma al quale gli italiani non erano preparati. Poco male, la campagna fece moltissimo scalpore: obiettivo brand aweress centrato! La Chiara nazionale ha poi riproposto un cross-over con il settore food & beverage nel 2020 con Oreo. In questo caso si trattava di un’operazione sales driven oltre che di brand awareness: Oreo aveva realizzato un biscotto speciale per l’occasione e la Ferragni una capsule colleciton a tema: fu un successo.

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Il co-branding che non ti aspetti

L’utima wave in fatto di co-branding sembra quella di mettere insieme mele con patate, come diceva la mia insegnante di matematica quando sommavo unità di misura diverse.

Nel 2020 ha fatto parlare la scelta di Fendi di brandizzare una linea di pasta Rummo per usarlo come invito alla sua sfilata SS21. Ma per quanto possa sembrare bizzarra, la collab funzionò perché si fondava su valori comuni di artigianalità e Made in Italy.

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Prima Fendi x Versace, poi Versace x Fendi: un all-star game della moda dove due delle maison più iconiche rivisitano i codici stilistici dell’alta moda. La collezione SS22 di FENDACE, un brand creato ad hoc, si chiama infatti “The Swap”, lo scambio, dove per la prima volta i due marchi si sono uniti in un’unica sfilata. Gli apripista in questo senso erano stati Gucci e Balenciaga, con la compresenza nel fashion film “Aria” del 2021. Il film celebrava il centenario della maison italiana, che con quella spagnola condivide l’affiliazione. Il gruppo Kering, che dal 2020 naviga in acque piuttosto torbide, ci ha visto lungo e ha trovato un modo per unire le forze.

Nel 2022 il panorama italiano ha visto nascere una collaborazione che ha dell’incredibile, composta da un binomio di brand che distruggono i canoni comunicativi dei rispettivi mercati. Layla x Taffo è la sinergia tra make up e la nota casa funeraria. Entrambi hanno una strategia di comunicazione frizzante, disruptive e decisamente fuori dagli schemi, che ha fatto che sì che il mascara “The Longer, The Better” fosse un successo dal primo minuto. Vi basti sapere che il claim era “potrebbe essere l’ultimo mascara che proverai” e che il pack era una piccola bara in velluto: l’internet è impazzito. Un appunto da precisine? Il lancio poteva essere fatto ad Halloween e non a San Valentino, ma il prodotto è sold out da mesi, quindi poco male.

 

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Nemici, amici: insieme per il covid

Nel settembre del 2019, in Argentina McDonald’s stava raccogliendo fondi per il cancro infantile, donando i proventi di un giorno di vendita di Big Mac. Con una mossa lungimirante anche se a prima vista incredibile, Burger King scelse di non vendere Whopper quel giorno, chiamando la campagna “A Day Without Whopper” cogliendo con una sola zampata l’opportunità di fare una buona azione e racimolare un po’ di affetto dai propri clienti e da quelli del competitor.

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Non capita tutti i giorni di vedere i brand di fast food (notoriamente iper competitivi nei paesi anglofoni) allearsi per un obiettivo comune. Ma durante la pandemia il senso di comunità dei lavoratori della ristorazione ebbe la meglio. Nel novembre 2020 sul feed Twitter di Burger King UK apparve un messaggio di solidarietà settoriale che sostanzialmente diceva “Ordinate anche da McDonald’s”. All’epoca la mission aziendale non era più vendere il maggior numero di panini ma conservare il maggior numero di posti di lavoro tra gli impiegati del settore ristorazione.

Quando il co-branding finisce male

Tutto molto bello, ma non potevamo non citarvi almeno un esempio di co-branding che non è andato come avrebbe dovuto. Prendiamo ad esempio la partnership decennale di Shell e Lego. Dagli anni ‘60 Shell ha brandizzato miliardi di mattoncini Lego, dalle auto da corsa alle pompe di benzina, grazie ad una partnership che sembrava perfettamente win-win: Shell lavorava sulla brand awarness del target bambini e genitori mentre Lego ci guadagnava in autenticità. Ma il banco è saltato nel 2011, quando Greenpeace ha iniziato a problematizzare il fatto che i bambini giocassero con mattoncini firmati da una compagnia petrolifera che stava perforando l’Artico e che aveva una tradizione di pratiche ambientali piuttosto discutibili. Greenpeace uscì con una meravigliosa campagna d’animazione, che potete vedere qui sotto, e l’ondata d’indignazione pubblica che ne seguì portò le due aziende a separarsi ufficialmente nel 2014.

Se vi interessano le nuove frontiere del marketing, potete approfondire con quest’articolo sui Bias cognitivi al neuromarketing: le nuove frontiere della persuasione.

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