Il Senso delle Donne per la Città

7 Marzo 2024 Sottosopra Comunicazione

Il Senso delle Donne per la Città

Elena Granata ci racconta come e perché le donne devono dire la loro in fatto di urbanistica.

Questa non è una città per donne. Né lo è il nostro Paese, né il nostro pianeta. Affermazioni forti ma corroborate da valanghe di dati. Li racconta bene Caroline Criado Perez, giornalista e attivista britannica che nel 2020 ha raccolto questi dati nel libro “Invisibili”. Non che noi donne avessimo bisogno “dei dati” per sapere che:

  • Nei bagni delle donne c’è sempre la coda e in quelli dei maschi no.
  • I medici spesso non sono in grado di diagnosticare il nostro infarto.
  • Dedichiamo il doppio del tempo alla cura dei figli e il quadruplo alla cura della casa (si considera che avere un marito comporta per ogni donna sette ore settimanali di lavoro domestico in più).
  • Le Nazioni Unite stimano che nei paesi dell’Unione Europea fino al 50% delle donne è stato molestato sessualmente sul lavoro.
  • Le auto non sono costituite per noi, perché anche se gli uomini hanno più probabilità di essere coinvolti in un incidente, quando a bordo c’è una donna ha 47% di probabilità in più di uscirne gravemente ferita.

Come dicevamo, sono dati che le donne sanno senza aver letto le ricerche: è la realtà che vivono tutti i giorni. E come loro chiunque non si identifichi in un maschio bianco alto circa 1.80 per 80kg: il golden standard per qualsiasi cosa, dalle misure degli attrezzi da lavoro ai manichini dei crash test, dalla collocazione dei bagni pubblici alle infrastrutture stradali e di trasporto pubblico.

E se Criado Perez parla di dati a livello mondiale, l’Atlante di Genere della Città di Milano, edito da Sex & the City APS entra nello specifico di Milano.

Partendo dal presupposto che “lo spazio non è neutro, ma abitato da corpi sessualizzati che hanno differenti esperienze della città, […] e quando i pianificatori non tengono conto del genere, gli spazi pubblici diventano di default spazi maschili”, lo studio esplora Milano in termini di sicurezza, comodità, esperienza dello spazio pubblico per le donne.

Di questi temi si occupa da anni la nostra ospite di oggi: Elena Granata, Professoressa Associata di Urbanistica al Politecnico di Milano e in altri poli universitari, autrice e consulente delle istituzioni nel campo delle politiche urbane e culturali.

Il Senso delle Donne per la Città

Elena Granta

Abbiamo voluto fare una chiacchierata con Granata in vista dell’8 marzo, per capire come e perché possiamo fare di più per modellare la nostra città anche a nostra immagine. Trascriviamo qui la nostra conversazione in forma originale.

Sottosopra: Partendo dal presupposto che siamo d’accordo con te e con Criado Perez quando sostenete che generalizzare in città dei maschi e delle femmine non aiuta. È una questione di potere: la classe dirigente è ancora formata principalmente di maschi occidentali di mezza età. Quindi donne, disabili, bambini, anziani e stranieri si ritrovano in una città che non li rappresentata. Vorremmo farti alcune domande.

Nella quarta di copertina del tuo ultimo libro scrivi che “Le donne, in forme varie e sempre eclettiche, hanno maturato un pensiero pratico sulla città che oggi non possiamo trascurare e di cui peraltro loro stesse non sono ancora pienamente consapevoli.”

Da cosa deriva questa poca consapevolezza?

Elena Granata: Non abbiamo collettivamente imparato ad avere consapevolezza di noi, del nostro pensiero, semplicemente perché non c’è mai stato un vero riconoscimento dell’originalità e dell’importanza di questo sguardo. E così quando impari fin da piccola che quello che fai e pensi non è importante ti adatti, ti conformi, pensi che spetti a te imparare altre regole del gioco. Negli anni della mia formazione all’architettura trovavo normale leggere solo grandi maestri e libri scritti solo da uomini. Mi ci sono voluti tanti anni per capire che mi mancava qualcosa. Che mancava qualcosa alla mia formazione e anche – cosa forse più importante ancora – alla formazione dei miei colleghi maschi.

C’è poi un pregiudizio che portiamo con noi, secondo cui “c’è più virtù nel fare”, nel lavorare nel backstage, nell’organizzare senza apparire, come quelle brave padrone di casa che allestiscono la casa e la tavola per gli ospiti, curano ogni dettaglio, mettono a loro agio gli invitati ma lasciano brindisi e cerimonie al marito perché il loro compito finisce un attimo prima. Le donne organizzano i convegni, ne curano gli inviti, presiedono l’ufficio stampa, spesso moderano e preparano le domande per gli ospiti, curano la scaletta, disegnano la coerenza tra i relatori ma poi in scena, sul palco, vanno i guru e i professori, i politici e gli esperti, “perché tanto noi la rivoluzione la facciamo altrove”, perché “il nostro lavoro emerge comunque attraverso la qualità del risultato”, e dulcis in fundo, perché “noi non abbiamo bisogno di apparire!”.  Questi sono i commenti auto-assolutori che sento mediamente in giro.

E anche quando diventano vice-presidenti o vice-direttrici o vice-sindache o vice-tutto, come ci ha spiegato bene Michela Murgia, le donne non rompono comunque gli equilibri.

Elette a rappresentare l’alter ego del capo, non useranno mai quel potere per mettere in discussione il sistema ma semplicemente si compiaceranno di essere le prescelte, quelle più degne di stare lì, sopra il podio. Le donne, come le api, sono operose, attive, lavorano in gruppo, partecipano attivamente alla costruzione del sistema vigente, rispondono a logiche che non mettono in discussione, si muovono dentro circuiti che non hanno immaginato, né progettato, dalle aziende alle città; partecipano ad un gioco che non hanno – se non in forma marginale – contribuito a disegnare.

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Sottosopra: A proposito di sistema. Nel tuo lavoro parli spesso della necessità di passare da una visione economica ad una ecologica della città, per star bene nello spazio pubblico:

“Le donne hanno sviluppato un pensiero laterale e pratico che nasce dallo scarto, dagli spazi interni dello star bene, della progettazione dello spazio granulare, minuto, tra le case. È quello che manca oggi: grandi città dove è impossibile vivere bene, girare in bicicletta, godere dello spazio pubblico con i figli.

Elena Granata: Sì, le donne possono dare un contributo determinante a immaginare un nuovo modello di convivenza urbana, con la forza delle loro idee, con i loro bisogni e desideri, mettendo a nudo quello che non funziona e che potrebbe cambiare, rivelando le asimmetrie nella ripartizione del potere e delle responsabilità. Nel libro scrivo che è necessario passare da una visione del mondo (solo) eco-nomica a una visione eco-logica, capace cioè di tenere insieme in modo nuovo le complesse dimensioni della vita quotidiana, con particolare attenzione ai beni comuni dal cui destino dipendiamo tutti (l’acqua, il suolo, l’aria, la luce e il cielo, ma anche l’educazione, l’accesso al web, le competenze digitali, i servizi al cittadino).

Facciamo qualche esempio…proteggere i suoli e investire sulla rigenerazione urbana, aumentare le isole pedonali e le zone a traffico limitato e intervenire sulla riforestazione urbana, intervenire sul sistema della mobilità e integrare nuove energie sostenibili, riorganizzare il ciclo dei rifiuti e facilitare gli interventi sul patrimonio edilizio, ripensare i tempi delle città e costruire piste ciclabili. La transizione sta in tutti quelle “e”, congiunzioni che ci costringono a ripensare ai sistemi nel loro insieme, a utilizzare la nostra intelligenza connettiva senza proporre inutili interventi di tamponamento. È su questa frontiera, radicale e rivoluzionaria, che le donne dovranno fare la differenza. Noi dobbiamo legare le cose tra di loro! far capire i nessi e le relazioni!

Sottosopra: Sostieni anche che ci sono sì sempre più architette e ingegnere, ma che a causa del mancato supporto alla maternità del nostro paese (solo il 57% delle madri italiane riesce a mantenere un impiego) è difficile che facciano sentire a lungo la propria voce in ambito progettuale.

Elena Granata: In tutti i corsi di studi (dall’architettura, all’urbanistica, dall’ingegneria al design) le ragazze sono sempre più presenti e sempre più brave. Si laureano a pieni voti e potrebbero fare carriere di successo e di soddisfazione ma poi si perdono. Non le troviamo in ruoli apicali, abbandonano il “cantiere” dopo la nascita del primo figlio, si disamorano ad un lavoro che spesso è inconciliabile con la vita privata e familiare. Succede in tutte le professioni ma quelle legate all’architettura vedono un abbandono più consistente da parte delle donne. Ma non è solo un problema di numeri e di posizione.

Bisogna riprendersi uno spazio libero e autonomo di parola. Prendere la parola, usare un linguaggio non-formattato, generare un proprio pensiero autonomo, sono molte le cose da imparare a fare per muoversi nella sfera pubblica.

E per le donne fino ad ora è stata una strada in salita. Nel libro distinguo tra lingua padre e lingua madre. La lingua padre esprime i valori in un mondo scisso: soggetto/oggetto, sé/altro, mente/corpo, dominante/sottomesso, attivo/passivo, uomo/natura, uomo/donna. È unilaterale. Non si aspetta una risposta. La lingua madre, parlata o scritta, si aspetta una risposta. È una conversazione, che nella sua stessa radice contiene la possibilità di “trovarsi insieme”. La lingua madre è un linguaggio inteso non come mera comunicazione ma come relazione, come rapporto. Crea un legame. Va in due direzioni, in molte direzioni, è uno scambio, una rete. La lingua madre offre l’esperienza come la propria verità. Che significa? Che nella comunicazione, anche scientifica, anche tecnica, non si prescinde dalla propria esperienza che entra in relazione con il proprio sapere acquisito.

Quando le donne cominciano con coraggio a mescolare la lingua madre – quella delle cose quotidiane – anche in pubblico, fanno un esercizio di sovversione molto potente e potenzialmente rivoluzionario e abilitano anche le altre (e soprattutto gli altri) a farlo.

Ricordo che per anni, agli albori del mio percorso di ricerca invidiavo ad alcune colleghe il parlare forbito, i frequenti riferimenti a letture, ad autori. Una postura assolutamente maschile. Quella era l’unica strada che pareva percorribile, assumere la serietà e la riverenza verso un sapere nella gran parte dei suoi costrutti, definita da uomini. D’altronde in assenza di modelli veramente femminili che cosa potevamo fare se non acquisire i modi e i costumi dei nostri migliori colleghi maschi?

Poi ho capito che conformarmi a quel modello non faceva per me!

Come riescono quindi le addette ai lavori come te a influire sul pensiero progettuale della città?

Elena Granata: Facciamo una grande fatica a farci ascoltare, anche se le cose pian piano migliorano.

Si fa fatica ad incidere perché in molti casi la classe dirigente e chi decide in merito alle cose pubbliche ha ancora un modello in testa dove parole come rendita, controllo, economia hanno ancora più importanza che benessere, qualità di vita, salute, cura.

Serve un ribaltamento culturale di valori, di orizzonti, di scenari e la strada è ancora molto lunga. Per questo io ho scelto tre strade:

1. Scrivere libri che possano essere letti da tutti e non solo dagli addetti ai lavori. Scrivere e prendere la parola sono davvero forme di impegno rivoluzionarie che consentono di arrivare a persone che non conosci e incidere sulle loro scelte, sul modo di pensare, sulle azioni politiche.

Io ricevo centinaia di mail di persone che mi leggono e si appassionano (o riappassionano) all’architettura intesa come modo per migliorare la vita di tutte le persone.

2. Insegnare ai ragazzi. I giovani, gli studenti e le studentesse “sentono” più che le generazioni precedenti l’urgenza di lavorare per rigenerare natura, per mitigare l’impatto della crisi climatica, per favorire forme nuove di abitare.

C’è infatti un dato generazionale che ho modo di riscontrare anno dopo anno nei miei studenti e che è all’origine anche delle motivazioni per cui io stessa decisi di studiare architettura. La maggior parte degli studenti che si avvicina all’architettura non vuole fare l’architetto. L’allargamento dei confini della disciplina è in ogni caso una tattica di sopravvivenza, la versatilità del pensiero l’attitudine di cui la società ha più bisogno oggi. Le grandi sfide che affrontiamo non si conformano a silos disciplinari, ma sconfinano nello spazio disordinato tra politica, economia, cultura e – fondamentale per gli architetti – pensiero spaziale. Queste sfide sono definite dalla loro interconnessione, non possono essere risolte con metodi vecchi, richiedono nuove forme di pensiero e di lavoro, che combinino una coscienza planetaria con un umanesimo responsabile che valorizzi le competenze locali. Dobbiamo solo essere abbastanza coraggiosi da svincolare queste nuove abilità dall’interesse per l’edificio. Fuori c’è il mondo.

3. Cimentarmi, quando possibile, con azioni locali, progetti che provino a trasformare per davvero luoghi e contesti di vita. In questo momento sto lavorando al Piano Clima di una cittadina della Brianza, ad un progetto di rigenerazione di un’area industriale in Umbria, al recupero di una piazza in Piemonte: progetti a scale e con committenti diversi, in cui provare a fare la differenza, nei modi e nelle scelte progettuali. Non adattarci a quello che si è sempre fatto.

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Sottosopra: Tu spingi molto sull’importanza di esserci nei processi decisionali, immaginifici e visionari a monte dei progetti urbani. Parliamo quindi di donne in politica. In una puntata di Città di Will Media riportavi che:

Dal 2018 le sindache crescono in tutto il mondo. In Italia ci sono :

8% sindache di capoluoghi

35% vice sindache capoluoghi

44% assessori

32% consigliere comunali

Secondo te stanno facendo la differenza? Stai vedendo un cambiamento positivo negli ultimi anni? Puoi citarci alcune amministratrici italiane che stanno facendo un buon lavoro per la città delle persone?

Elena Granata: C’è un pensiero sulla città che spesso nasce da un impegno diretto di sindache e amministratrici e che comincia a depositare esperienze, visioni, progetti prima impensabili. Dal 2018 è cresciuto il numero di sindache di grandi città: tra le piú interessanti per l’impronta di cambiamento che stanno dando alle loro città ricordiamo London Breed a San Francisco, Claudia López Hernández a Bogotá, LaToya Cantrell a New Orleans, Lori Lightfoot a Chicago, Femke Halsema ad Amsterdam e Souad Abderrahim a Tunisi, Ada Colao a Barcellona. E ancora Anne Hidalgo, sindaca di Parigi, eletta per la prima volta nel 2014 e poi una seconda nel 2020, che si è distinta per avere riportato a Parigi con forza i temi ambientali e della qualità degli spazi pubblici; Carmen Yulín Cruz, sindaca di San Juan a Porto Rico dal 2013 al 2020, attenta alla questione abitativa e al tema del lavoro; Muriel Bowser che opera a Washington dal 2015, ed è stata rieletta nel 2018; Marianne Borgen, a Oslo dal 2015, che ha costruito le condizioni per una città a misura di bambini; infine, Yvonne Aki-Sawyerr, a Freetown, di cui abbiamo già parlato, la sindaca dei cambiamenti climatici e della riforestazione urbana.

Pur provenienti da esperienze e ambienti culturali molto diversi, queste sindache hanno in comune una grande sensibilità per la vita quotidiana, per la sicurezza e i diritti delle fasce piú svantaggiate della popolazione.

In alcuni casi, come in quello di Claudia López Hernández e Lori Lightfoot, la battaglia per i diritti Lgbt+ le ha portate a spendersi politicamente per i diritti di tutta la comunità. In altri casi, come nella storia di La-Toya Cantrell, alla candidatura politica si arriva dal lavoro nei gruppi sociali e di promozione umana (educazione, povertà, protezione civile).

Parigi, Barcellona, New Orleans dal punto di vista politico non sono un premio di consolazione ma sanciscono decisamente un salto di scala. Non vale più la semplice corrispondenza donne-micro-comunità: per la prima volta le donne dimostrano di saper esprimere un pensiero strategico e logiche di tipo macroeconomico, di saper gestire emergenze sanitarie e visioni di lungo periodo, liberandosi di quell’immaginario socialmente rassicurante della cura materna (da servizi sociali) che ne ha spesso accompagnato le carriere.

Se guardiamo al caso italiano, guardo con interesse a amministrazioni come Bologna e all’esperimento coraggioso della città a 30 Km/h.

Mi pare il laboratorio più interessante da osservare oggi: non si tratta solo di moderare la velocità e salvare vite umane, ma di ripensare la città a partire da come camminiamo, ci muoviamo, troviamo spazi di benessere e di sosta, spazi senza auto, servizi di prossimità.

Anche noi donne che non facciamo politica e che non siamo urbaniste possiamo essere agenti attivi del cambiamento? Se sì come?

Elena Granata: La nostra vita è politica. Quando ci muoviamo, come ci muoviamo, cosa compriamo, cosa non compriamo, dove abitiamo, come impieghiamo il tempo, il valore che diamo alle cose, il tempo e come lo usiamo, le relazioni che costruiamo. Possiamo sempre essere agenti di cambiamento, da solo o mettendoci insieme.

Ma ricordiamoci quello che ci ha insegnato Michela Murgia: parlare è l’atto più rivoluzionario di cui siamo capaci. Parlare anche quando ci pare che il nostro linguaggio, le nostre esperienze, il nostro pensiero viene guardato con sufficienza e quasi con tenerezza, parlare sempre anche quando ci sentiamo stonate, parlare e dire la nostra. Quando avremo imparato a non aver paura di proporre un pensiero diverso (in un aula o in un ufficio) anche quando ci costa (spesso anche la carriera!), quando ci sentiremo forti perché saremo in tante a farlo, beh le cose saranno già molto cambiate.

Risorse:

Il libro: “Il senso delle donne per la città” Elena Granata – Einaudi

Gli articoli per PlanetB

Le puntate di “CIttà”, il podcast di Will Media, con ospite Elena Granata

Le nostre interviste alle attiviste Milanesi per una città delle persone:

Ilaria Fiorillo: La bici è libertà e indipendenza

Ester Manitto: In bici per una didattica innovativa del design

Irene Voi: Come attivare un cambiamento gentile con il nudge

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