Il podcast come strumento di comunicazione – Intervista a Davide Panza (DIGITALMDE)

9 Giugno 2020 Sottosopra comunicazione

Il podcast come strumento di comunicazione – Intervista a Davide Panza (DIGITALMDE)

Nel primo semestre del 2020 i podcast hanno vissuto un momento d’oro e rispetto agli ultimi dati rilasciati da Ipsos a dicembre 2019 (qui la ricerca completa), la crescita nella fruizione di questo tipo di contenuto, da gennaio ad aprile, è pari al 300%. Complici lockdown e pandemia, molti italiani hanno scoperto il mondo del digital audio e iniziato ad ascoltare i tanti contenuti a disposizione sulle diverse piattaforme di streaming.
Nel blog di Sottosopra Comunicazione avevamo già parlato di podcast proprio un anno fa, in un articolo introduttivo, selezionando alcuni contenuti a nostro avviso ben realizzati.

Di recente, durante un webinar dello Iab, abbiamo conosciuto Davide Panza, grande esperto in materia e Co-Founder di DIGITALMDE, la prima Media Company focalizzata sul Digital Audio, fondata con Mirko Lagonegro, ex Station Manager di R101 e Discoradio.
Abbiamo intervistato Davide (consulente da oltre 18 anni in Marketing Management, con competenze in ambito Innovation Management e New Business) per approfondire il tema dei podcast e comprendere al meglio come trasformare questo tipo di contenuto in uno strumento di comunicazione per aziende e agenzie. 

 

Da dove nasce la tua passione per i podcast e i contenuti audio in generale?
Tutto è iniziato alla vigilia di Natale 2014, quando dopo aver telefonato al mio attuale socio (Mirko) per fargli gli auguri, mi ha risposto: “ho un’idea, vieni qua che ne parliamo”. Una volta nel suo ufficio, ha iniziato a raccontarmi del fenomeno podcast e digital audio dilagato negli States e mi ha detto “Facciamolo anche in Italia!”.
Durante le vacanze di Natale quell’anno ho fatto i compiti e sono tornato da lui dicendogli “abbiamo un problema e un’opportunità”. 
L’opportunità era che al momento in Italia di digital audio non ne parlava nessuno, quindi saremmo stati i primi e avremmo potuto approfittare della “first mover advantage“, fondamentale nel mondo del marketing.
Il problema era che appunto, senza nulla, non esisteva un modello di business ed economico su cui lavorare.
Non c’era mercato insomma, così Mirko mi propose di crearli entrambi: prima il mercato, poi i podcast (ride, ndr).
La genesi è stata questa: nel 2015, continuando entrambi a svolgere i nostri lavori, io come marketing manager, lui come station manager, abbiamo cominciato a buttare giù le prime ipotesi su una società, montare il progetto e capire come sarebbe potuto diventare. Nel 2016 abbiamo iniziato a mettere le basi sugli stakeholder parlando dell’idea a chi già si muoveva in quel contesto. Oggi siamo i referenti per il digital audio per IAB, UPA, Osservatorio del Politecnico di Milano, per citarne alcuni.

Abbiamo inoltre cercato tutte le tecnologie necessarie e, relazionandoci con alcune società leader nel comparto, siamo diventati loro partner esclusivi per l’Italia.
Da lì abbiamo iniziato a lavorare sulle tecnologie per posizionarci come digital audio strategist a 360°, presso brand, editori, agenzie e centri media, cercando di spiegare l’importanza dell’audio pari a quella del video.
Nel 2017 è arrivata la prima commessa: oltre 220 podcast per Mondadori (per Star Bene) e da lì è proseguito tutto.

 

E nel mentre, in Italia, come stava evolvendo il mercato audio?
Purtroppo alcuni grandi editori che producono contenuti di qualità con un nome importante alle spalle hanno da subito fatto la scelta di produrre podcast per modelli a subcription, il cui ascolto è quindi riservato agli abbonati. Questa decisione non ha di fatto innescato un meccanismo virtuoso volto ad aumentare le audience.
Nelle piattaforme di streaming sono presenti gratuitamente oltre un milione di serie di podcast e diventa più difficile convincere un ascoltatore a pagare un abbonamento per ascoltare alcuni contenuti.

Quindi oggi noi siamo qua, cerchiamo di far proseguire l’onda che è partita e funziona, offrendo sia produzione di contenuti sia un modello completo di comunicazione in audio.

 

In Italia però molte aziende ancora non si stanno muovendo verso il digital audio e spesso anzi li senti dire “ma tanto c’è la radio”.
Verissimo. Questo perché molti fanno ancora confusione, tra “content” che è il podcast e “advertising”, che è quello che offre la radio alle aziende. Decidere di investire in un content, specialmente nei branded content, si avvicina di più al fare un video o a costruire un evento. L’investimento maggiore sta nella costruzione di un messaggio e di un audience: il digital audio è un media vero e proprio composto da parti diverse con obiettivi diversi.
Piano piano e se tutto va bene, nel secondo semestre di quest’anno si vedranno dei miglioramenti.
Noi di recente abbiamo rilasciato un podcast di ABB, uno per il MIP del Politecnico e uno per la SDA Bocconi, tutti branded content.

 

Se in Italia le grandi aziende inizieranno a investire nei podcast, pensi che le altre le seguiranno a ruota?
Me lo auguro, anche se c’è un rischio: purtroppo l’accesso al podcast non ha barriere di ingresso e a livello di tecnologie di distribuzione, sono tutti identici. L’accesso è facilissimo e il problema che le agenzie e le aziende devono porsi non è se possono fare un podcast, ma come realizzare un progetto di comunicazione in audio, che è un’altra cosa.
Noi dai clienti parliamo di obiettivi, target e concept e spieghiamo che va tutto studiato e realizzato. Con tanto di scelta oculata dei materiali e un piano di comunicazione con relativi KPI. Non si inventano podcast dalla sera alla mattina.

Spero che le aziende non scelgano la via facile e più economica ma considerino il podcast come uno strumento di comunicazione importante che merita la giusta professionalità.

 

Un po’ come quando c’è stato il boom dei video virali in fondo, che attiene comunque a una strategia: non è mai il mezzo che fa l’obiettivo, ma il mezzo concorre ai diversi obiettivi che fanno una strategia. Anche il podcast funziona così?
Assolutamente sì! Ci sarà chi partirà bene, chi meno e chi si accorgerà a metà di dover aggiustare il tiro: il podcast non è un mezzo costoso, quindi puoi sistemarlo in corso d’opera per fortuna. Purtroppo esistono poche case histories di valore e molti progetti sono di comunicazione interna quindi non si possono presentare pubblicamente.

 

Mentre alcuni mesi fa dei podcast si parlava ancora poco, oggi la situazione sembra essersi ribaltata: qualche dato di questi ultimi mesi?
Secondo la prima ricerca Ipsos, pubblicata a dicembre 2019 con riferimento all’estate precedente, il 26% della popolazione ascolta un podcast al mese, nella maggior parte gli under 35; il 78% ascolta podcast a casa e solo il 30% in mobilità.
Riguardo la tipologia di contenuti ascoltati, il 71% ascolta serie di podcast, il 45% afferma che, quando ascolta un podcast, lo fa per l’intera durata della puntata. Questo dato è importante e decisivo: tu puoi parlare per 10 o 20 minuti a persone che sei sicuro ti ascoltano dall’inizio alla fine.
Con il lockdown tutti i media digitali sono cresciuti, i dati per ora riportano crescite per i podcast, da gennaio ad aprile, superiori al 300%: certo, crescere su numeri piccoli è più facile è vero, ma è comunque un fortissimo aumento.
La gente ha scoperto il formato, gli piace, lo cerca e lo utilizza: l’audience quindi ora c’è e bisogna investire in produzioni con la “p” maiuscola.

 

 

La differenza con i video quindi quale è?
Mentre il podcast ha una barriera all’ingresso molto bassa, ne ha una all’ascolto molto alta: nel mondo visuale (screen based) fatto di schermi, i contenuti video arrivano da me, non vado a cercarli. L’audio invece no: non esiste una tecnologia che lo porta da me, l’audio devo andare a prenderlo e arrivare fino a schiacciare il tasto Play. In quei minuti del mio customer journey, scelgo di dare fiducia a un contenuto e il rovescio della medaglia è che, se quello che sento non mi convince, non torno più. Fare un podcast è facile, farlo fatto bene è più difficile; farlo trovare, emergere e creargli un’audience fidelizzata diventa un progetto di comunicazione.

 

Ci sono Paesi rispetto a noi più avanti? L’italia come si piazza?
L’Italia si piazza indietro. I podcast vanno per lingua: quelli anglofoni sono partiti prima, hanno una storia di produzione e un modello di business molto più consolidati, e per certi versi vale lo stesso per quelli ispanici.
In italiano abbiamo un bacino più piccolo e meno attraente in termini di numeri e audience, però c’è una curva con un’inclinazione positiva, seppur partendo dopo. Scontiamo il ritardo di partenza ma vediamo segnali incoraggianti che ci indicano che stiamo seguendo le buone orme degli altri Paesi.

 

Su quest’onda quindi, molte aziende e agenzie ci si tufferanno: errore da non commettere e regola da seguire?
L’errore da evitare è “lo faccio da solo, tanto registrare un audio è facile”.
Noi organizziamo workshop per creativi interni alle agenzie, per formarli perché non sempre le agenzie sono pronte a lavorare su questo contenuto per le aziende. Bisogna evitare di sottovalutare la gravità di un podcast realizzato male.
E la regola è avere una strategia a lungo termine: bisogna costruire storie che possano creare valore nel tempo, investire in un contenuto, farlo bene e godere della coda lunga.

 

Podcast che consigli?
I nostri! (ride, ndr)
Io consiglio di iniziare da quelli che trattano un argomento o un genere che ti piace, perché così sarà più facile continuare.

Il problema, simile a quello che si ha nello scegliere una serie tv vista la quantità di quelle a disposizione, è il “discovery”: bisogna investire del tempo per trovare il podcast giusto da ascoltare. 

 

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